Concilio di Trento.
I-VI sessione (1545-1547) | VII-XI sessione (1547) | XII-XVI sessione
(1551-1552)
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XVII-XXII sessione (1562-1563) | XXIII-XXIV sessione
(1563)
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XXV sessione (1563)
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XVII-XXII sessione
(1562-1563)
SESSIONE XVII (18 gennaio 1562)
Decreto sulla celebrazione del concilio.
Illustrissimi e reverendissimi signori, reverendi padri, vi sembra opportuno, a lode e gloria della santa, indivisa
Trinità, Padre, Figlio e Spirito santo, ad incremento ed esaltazione della fede
e della religione cristiana, che il sacro concilio ecumenico e generale
Tridentino, legittimamente riunito nello Spirito santo, da oggi 18 di gennaio
1562 dalla nascita del Signore, giorno dedicato alla cattedra di s. Pietro in
Roma, principe degli apostoli, annullata ogni sospensione, riprenda la sua
celebrazione, secondo la forma e il contenuto delle lettere del santissimo
nostro signore Pio IV, pontefice massimo; e che in esso, nell’ordine dovuto,
siano trattati quegli argomenti che, su proposta dei legati e presidenti, allo
stesso sinodo sembreranno adatti e idonei a lenire le calamità di questi tempi,
a sedare le controversie religiose, a reprimere le false lingue, a correggere
gli abusi dei costumi, ad ottenere la vera e cristiana pace per la chiesa? [Risposero: sì].
Indizione della futura sessione.
Illustrissimi e reverendissimi signori, reverendi padri, credete opportuno che la prossima, futura sessione si debba tenere e celebrare il
giovedì dopo la seconda domenica di Quaresima, che cadrà il 26 del mese di
febbraio? [Risposero: sì].
SESSIONE XVIII (26 febbraio 1562)
Decreto sulla scelta dei libri e sulla volontà di
invitare tutti al concilio con salvacondotto.
Il sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, legittimamente
riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati della sede
apostolica, confidando non nelle risorse umane, ma nella protezione e
nell’aiuto del signore nostro Gesù Cristo, che promise di dare alla sua chiesa
le parole adatte e la sapienza (306), a questo principalmente tende: a poter
ricondurre una buona volta la dottrina della fede cattolica - inquinata e
appannata, in molti luoghi, dalle opinioni di molti, che la pensano in modo
contrastante, - all’antica purezza e splendore, a riportare i costumi, lontani
dall’antico modo di vivere, ad un comportamento
migliore e a rivolgere il cuore dei padri verso i figli (307) e il cuore di
questi verso i padri (308).
Poiché, dunque, esso ha dovuto costatare che in questo tempo il numero dei
libri sospetti e pericolosi, nei quali si contiene una dottrina impura, da essi
diffusa in lungo e in largo, è troppo cresciuto, - e ciò è stato il motivo per
cui molte censure in varie province, e specialmente nella città di Roma, sono
state stabilite con pio zelo, senza però che ad un
male così grave e così pericoloso giovasse alcuna medicina, - questo sinodo ha
disposto che un gruppo di padri scelti per lo studio di questo problema,
considerasse diligentemente che cosa fosse necessario fare e, a suo tempo, ne
riferissero allo stesso santo sinodo, perché esso possa più facilmente
separare, come zizzania, le dottrine varie e peregrine (309) dal frumento della
verità cristiana (310); e con maggiore opportunità prendere una deliberazione e
stabilire qualche cosa di preciso su quelle questioni che sembreranno più
opportune a togliere lo scrupolo dall’anima di parecchia gente e a rimuovere le
cause di molti lamenti.
Esso desidera che tutte queste considerazioni vengano portate a conoscenza di chiunque, - ed intende farlo col presente decreto, - di
modo che se qualcuno credesse che ciò che si riferisce ai libri e alle censure
in parola, o alle altre cose che si dovranno trattare in questo concilio generale,
lo riguarda in qualche modo, non dubiti di essere benignamente ascoltato dal
santo sinodo.
E poiché lo stesso santo sinodo desidera con tutto
il cuore e prega istantemente Dio per la pace della
chiesa (311), affinché tutti, riconoscendo in terra la comune madre, che non
può dimenticare coloro che ha partorito (312), glorifichino unanimi, ad una
sola bocca, Dio e Padre del signore nostro Gesù Cristo (313), per la
misericordia dello stesso Dio e Signore (314), esso invita tutti coloro che non
hanno la comunione con noi e li esorta alla concordia e alla riconciliazione;
che vengano a questo santo sinodo; che vogliano attenersi alla carità, che è
il vincolo della perfezione (315), e portino con sé la pace di Cristo, che
esulta nel loro cuore, alla quale sono chiamati in un solo corpo (316).
Ascoltando, perciò, questa voce non umana, ma dello Spirito santo, non
vogliano indurire il loro cuore (317) non camminando secondo il loro sentimento
(3l8), né piacendo a se stessi (319), siano scossi e si ravvedano ad una ammonizione così pia e così salutare della loro
madre: poiché il santo sinodo, come li invita con ogni riguardo suggerito dalla
carità, così li accoglierà.
Ha decretato, inoltre, lo stesso santo sinodo, che
si possa concedere un pubblico salvacondotto nella congregazione generale e che
esso abbia la stessa efficacia, la stessa forza e la stessa importanza che se
fosse stato concesso e decretato in sessione pubblica.
Indizione della futura sessione.
Lo stesso sacrosanto concilio Tridentino, legittimamente riunito nello
Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati della santa sede,
stabilisce e dispone che la prossima, futura sessione debba tenersi a
celebrarsi il giovedì dopo la festa santissima dell’ascensione del Signore, che
sarà il 14 del mese di maggio.
Salvacondotto dato ai Tedeschi nella congregazione generale del 4 marzo
1562.
Il sacrosanto, ecumenico, generale concilio Tridentino, legittimamente
riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati della
santa sede, promette solennemente... (320).
Si estende lo stesso salvacondotto alle altre nazioni.
Lo stesso concilio ecumenico e generale Tridentino, legittimamente riunito
nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati della sede
apostolica, concede a tutti e singoli quegli altri che
non hanno comunione di fede con noi, a qualsiasi regno, provincia, città, luogo
appartengano, e in cui pubblicamente ed impunemente si predica, si insegna si
crede diversamente da quanto ritiene la santa chiesa Romana, il salvacondotto
nella stessa forma e con le stesse parole, con cui viene concesso ai Tedeschi.
SESSIONE XIX (14 maggio 1562)
Si rimanda la pubblicazione dei decreti.
Il sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, legittimamente
riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati della sede
apostolica, ha creduto bene, per alcuni giusti e ragionevoli motivi, prorogare
- e di fatto proroga - fino alla feria quinta dopo la
solennità del corpo di Cristo, che sarà il 4 giugno, quei decreti, che
avrebbero dovuto essere approvati oggi nella presente sessione; e notifica a
tutti che in quel giorno debba tenersi e celebrarsi la sessione.
Intanto bisogna pregare Dio e Padre del Signore nostro, autore della pace,
perché voglia santificare i cuori di tutti, perché col suo aiuto il santo sinodo possa, ora e sempre, meditare a condurre a
termine quelle cose che riguardano la sua lode e la sua gloria.
SESSIONE XX (5 giugno 1562)
Si proroga la pubblicazione dei decreti alla futura sessione, che viene indetta.
Il sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, legittimamente
riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati della
santa sede, a causa di varie difficoltà, sorte per diversi motivi, ed anche
perché ogni cosa proceda del tutto come si conviene e con maggiore
approfondimento e cioè perché le definizioni dommatiche siano trattate ed approvate assieme a quello che riguarda la riforma, ha
deciso che ciò che si dovrà stabilire, sia in materia di riforma che in materia
dottrinale, debba essere definito nella prossima sessione, che indice per il
giorno 16 del prossimo mese di luglio.
Lo stesso santo sinodo potrà liberamente
abbreviare o prorogare questo termine a suo arbitrio e volontà, come
comprenderà essere utile all’andamento del concilio, anche in congregazione
generale.
SESSIONE XXI (16 giugno 1562)
Dottrina della comunione sotto le due specie e dei fanciulli.
Proemio
Il sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, legittimamente
riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza dei medesimi legati della sede
apostolica, poiché per le arti dell’iniquissimo demonio sono state messe in giro, in diversi luoghi,
cose mostruose sull’adorabile e santissimo sacramento dell’eucarestia, per cui
in alcune province molti sembrano essersi allontanati dalla fede e
dall’obbedienza della chiesa cattolica, crede che a questo punto debbano
esporsi le verità che riguardano la comunione sotto le due specie e la
comunione dei fanciulli.
Esso, quindi, proibisce assolutamente a tutti i fedeli cristiani di osare
di credere, insegnare, predicare diversamente, in seguito, su questi argomenti,
da quanto è stato spiegato e definito con questi decreti.
Capitolo I.
I laici e i chierici che non celebrano non sono obbligati per disposizione
divina a comunicarsi sotto le due specie.
Dichiara, dunque, ed insegna, lo stesso santo sinodo,
istruito dallo Spirito santo, - che è spirito di sapienza e di intelletto,
spirito di consiglio e di pietà (321) -, ed attenendosi al giudizio e all’uso
della chiesa stessa, che i laici e i chierici che non celebrano, non sono
obbligati da nessun precetto divino a ricevere il sacramento dell’eucarestia
sotto le due specie, e che non si può assolutamente dubitare (senza diminuzione
per la fede) che basti ad essi, per la salvezza, la comunione sotto una sola
specie.
Poiché, anche se Cristo signore, nell’ultima cena istituì e diede agli
apostoli questo sacramento sotto le specie del pane e del vino, non è detto,
però, che quella istituzione e quella consegna voglia
significare che tutti i fedeli per istituzione del Signore siano obbligati a
ricevere l’una e l’altra specie.
Che poi la comunione sotto entrambe le specie sia comandata dal Signore,
non si deduce neppure dal discorso di Giov. VI, comunque esso, secondo le varie interpretazioni dei
santi padri e dottori, debba intendersi. Infatti, chi disse: Se
non mangerete la carne del Figlio dell’uomo e non berrete il suo sangue, non
avrete la vita in voi, disse pure: Se qualcuno mangerà di questo pane,
vivrà in eterno (322). E Chi disse: Chi mangia la mia carne e
beve il mio sangue, ha la vita eterna (323), disse anche: Il pane che io
darò è la mia carne per la vita del mondo; e finalmente chi disse: Chi
mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me
ed io in lui (324), disse, tuttavia: Chi mangia questo pane, vive in
eterno (325).
Capitolo II.
Il potere della chiesa circa la distribuzione del sacramento
dell’eucarestia.
Il concilio dichiara, inoltre, che la chiesa ha sempre avuto il potere di
stabilire e mutare nella distribuzione dei sacramenti, salva la loro sostanza,
quegli elementi che ritenesse di maggiore utilità per
chi li riceve o per la venerazione degli stessi sacramenti, a seconda delle
circostanze, dei tempi e dei luoghi. Cosa che l’apostolo sembra accennare
chiaramente, quando dice: La gente ci ritenga servi di Cristo e dispensatori
dei misteri di Dio (326). Ed è abbastanza noto che egli stesso si è servito
di questo potere, sia in molte altre circostanze (327) che in
relazione a questo stesso sacramento, quando, date alcune disposizioni
circa l’uso di esso: Il resto, dice, lo disporrò quando verrò (328).
Perciò la santa madre chiesa, consapevole di questo suo potere
nell’amministrazione dei sacramenti, anche se all’inizio della religione
cristiana l’uso delle due specie non era stato infrequente, col progredire del
tempo, tuttavia, mutato in larghissima parte della chiesa quell’uso, spinta da gravi e giusti motivi, approvò la consuetudine di
dare la comunione solo sotto una sola specie e credette bene farne una legge,
che non è lecito riprovare o cambiare a proprio capriccio, senza l’autorità
della stessa chiesa.
Capitolo III.
Sotto ognuna delle due specie si riceve Cristo
tutto intero e il vero sacramento.
Il concilio dichiara, inoltre, che quantunque il nostro Redentore, com’è
stato detto poco fa, abbia istituito e dato agli apostoli, nell’ultima cena,
questo sacramento sotto due specie, bisogna tuttavia confessare che anche sotto
una sola specie si riceve Cristo tutto intero e il vero sacramento, e che, per
quanto riguarda il frutto, quelli che ricevono una sola specie non vengono defraudati di nessuna grazia necessaria alla
salvezza.
Capitolo IV.
I piccoli non sono obbligati alla comunione sacramentale.
Finalmente lo stesso santo sinodo insegna che i
bambini che non hanno l’uso della ragione, non sono obbligati da alcuna
necessità alla comunione sacramentale dell’eucarestia. Rigenerati, infatti, dal
lavacro del battesimo (329) e incorporati a Cristo, non possono, a quell’età,
perdere la grazia di figli di Dio, che hanno
acquistato.
Non si deve, tuttavia, condannare l’antichità, se in qualche luogo ha
conservato quest’uso. Come, infatti, quei padri santissimi dovettero avere un
motivo plausibile, per l’indole di quei tempi, che giustificasse il loro modo
d’agire, così bisogna credere che, senza dubbio, hanno agito
in tal modo, senza pensare affatto che ciò fosse necessario alla
salvezza.
CANONI SULLA COMUNIONE SOTTO LE DUE SPECIE E SULLA COMUNIONE DEI FANCIULLI
1. Se qualcuno dirà che tutti e singoli i fedeli cristiani devono ricevere
l’una e l’altra specie del santissimo sacramento dell’eucarestia per divino
precetto o perché sia necessario alla salvezza, sia anatema.
2. Chi dirà che la santa chiesa cattolica non sia stata addotta da giuste
ragioni e da giusti motivi, a dare la comunione ai
laici e a quei sacerdoti che non celebrano sotto una specie soltanto o che in
ciò essa erri, sia anatema.
3. Se qualcuno negherà che sotto la sola specie del pane si riceve Cristo,
fonte ed autore di tutte le grazie, tutto intero
perché, come alcuni dicono falsamente, non è ricevuto sotto l’una e l’altra specie,
secondo l’istituzione di Cristo, sia anatema.
4. Se qualcuno dirà che la comunione eucaristica è necessaria ai bambini
anche prima che abbiano raggiunto l’età di ragione, sia anatema.
Quanto ai due articoli, già proposti, ma non esaminati, e cioè: "Se i
motivi da cui fu indotta la chiesa cattolica per dare la comunione ai laici e a
quei sacerdoti che non celebrano solo sotto una specie, siano da considerarsi
tali da non permettere ad alcuno l’uso del calice per alcuna ragione"; e:
"Se, qualora sembrasse opportuno doversi concedere ad alcuna nazione o
regno, per motivi giusti e conformi alla cristiana carità, l’uso del calice,
debba concedersi sotto alcune condizioni: e quali siano queste
condizioni", lo stesso santo sinodo ne rimanda
l’esame e la conferma ad altro tempo, alla prima occasione, cioè, che ad esso
si presenterà.
Decreto di riforma.
Introduzione
Lo stesso sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, riunito
legittimamente nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati
della sede apostolica, a lode di Dio onnipotente e a gloria della santa chiesa
cattolica, crede bene stabilire, al presente, quanto
segue, sul problema della riforma.
Canone I
Poiché dall’ordine ecclesiastico deve esulare qualsiasi sospetto di
avarizia, i vescovi e gli altri che conferiscono gli ordini o i loro
rappresentanti, anche se venisse offerto
spontaneamente, non devono ricevere nulla con nessun pretesto; per il
conferimento di qualunque ordine, - anche per la tonsura clericale -, per le
lettere dimissorie o testimoniali, per il sigillo o per qualsiasi altro motivo.
Quanto ai notai, solo in quei posti dove non vi è la lodevole consuetudine
di non prendere nulla, potranno ricevere per ogni lettera dimissoria o
testimoniale la decima parte di uno scudo d’oro, purché non vi sia, già
stabilito, un salario, per l’esercizio del loro ufficio. Né al vescovo potrà
provenire su quanto percepisce il notaio un qualche
guadagno, direttamente o indirettamente, per il conferimento degli ordini. Essi
dovranno prestare la loro opera del tutto gratuitamente. Altrimenti il sinodo
annulla e proibisce assolutamente le tasse, gli statuti, le consuetudini
contrarie, anche immemorabili, che possono piuttosto essere chiamate
abusi e corruzioni, e che favoriscono la triste simonia.
Quelli che agissero diversamente, sia col dare che col ricevere, oltre la divina vendetta, incorrano ipso facto nelle pene
stabilite dal diritto.
Canone II
Poiché non è conveniente che quelli che sono entrati al servizio di Dio,
con disonore del loro ordine debbano mendicare o esercitare un mestiere
ignobile come mezzo di guadagno e poiché è noto che moltissimi, in moltissime
parti, vengono ammessi ai sacri ordini senza alcuna
selezione, ed affermano, con arti e menzogne, di avere un beneficio
ecclesiastico o mezzi sufficienti, il santo sinodo stabilisce che in futuro
nessun chierico secolare, anche se adatto per costumi, scienza ed età, venga
promosso ai sacri ordini, se prima non risulti legittimamente che egli ha il
pacifico possesso di un beneficio ecclesiastico, che gli sia sufficiente per un
onesto sostentamento.
Né potrà rinunziare a questo beneficio, se non facendo menzione che è stato promosso a titolo di quel beneficio; e la rinunzia non
sia accettata, se non risulterà che possa vivere tranquillamente con altri
mezzi; altrimenti la rinunzia sia nulla.
Quanto a quelli che hanno un patrimonio o una pensione, non potranno essere
ordinati, in futuro, se non quelli che il vescovo giudicherà doversi assumere
per la necessità o per la comodità delle sue chiese e non senza essersi prima
ben assicurato che quel patrimonio e quella pensione essi li hanno davvero, e
che sono sufficienti a sostentarli. Questi, inoltre, non potranno, in seguito,
esser alienati, o estinti, o ceduti in alcun modo senza licenza del vescovo,
fino a che non abbiano avuto un beneficio ecclesiastico sufficiente, o abbiano donde possono vivere. In ciò si rinnovano le pene
degli antichi canoni.
Canone III
Dato che i benefici sono stati costituiti per assicurare il culto divino e
compiere i doveri ecclesiastici, perché in nessun modo il culto divino
languisca, ma gli venga reso il dovuto rispetto in
ogni cosa, questo santo sinodo stabilisce che nelle chiese, sia cattedrali che
collegiate, in cui non vi sono distribuzioni quotidiane o in cui siano talmente
esigue da essere probabilmente trascurate, vi si debba destinare la terza parte
dei frutti e di qualsiasi provento ed introito, tanto delle dignità che dei
canonicati, dei personati, delle porzioni e degli uffici e si debba trasformare
in distribuzioni quotidiane. Queste saranno divise proporzionalmente fra quelli
che hanno le dignità e gli altri presenti ai divini uffici, secondo la
divisione che dovrà essere fatta dal vescovo, anche come delegato della sede
apostolica, in occasione della prima percezione dei frutti. Restano salve,
naturalmente, le consuetudini di quelle chiese, nelle quali quelli che non
risiedono o che non servono nei divini uffici, non percepiscono nulla o meno di un terzo. Tutto ciò, non ostante
qualsiasi esenzione, qualsiasi altra consuetudine, anche immemorabile e
qualsiasi appello. Qualora la contumacia di quelli che non servono
cresca, sia lecito procedere contro di essi secondo quanto dispongono il diritto
e i sacri canoni.
Canone IV
I vescovi, anche come delegati della sede apostolica, in tutte le chiese
parrocchiali, o battesimali, nelle quali il popolo è talmente numeroso, che un
solo rettore non basta ad amministrare i sacramenti della chiesa e a compiere
il culto divino, costringano i rettori o gli altri, a cui tocca, ad associarsi tanti sacerdoti, in questo ufficio, quanti siano
sufficienti a dare i sacramenti e a compiere il servizio divino.
In quelle chiese, poi, nelle quali per la distanza o la difficoltà dei luoghi i parrocchiani non possono recarsi a ricevere i
sacramenti o ad assistere ai divini uffici se non con grande incomodo, anche se
i pastori fossero contrari, possono costituire nuove parrocchie, secondo quanto
prescrive la costituzione di Alessandro III, che inizia con le parole: Ad audientiam. A quei sacerdoti, inoltre, che per la prima
volta devono esser preposti alle chiese di nuova erezione, venga assegnata, a giudizio del vescovo, una giusta porzione dei frutti, che in
qualsiasi modo appartengono alla chiesa madre. Se fosse necessario, potrà
costringere il popolo a provvedere a ciò che è
necessario per il sostentamento di questi sacerdoti, non ostante qualsiasi
riserva, generale o particolare su queste chiese. Queste ordinazioni, inoltre,
ed erezioni non potranno esser tolte o impedite da qualsiasi provvista, anche
in forza di una rinuncia o di qualsiasi altra deroga o sospensione.
Canone V
Perché anche lo stato delle chiese, in cui si compiono gli uffici divini,
sia conservato decorosamente, i vescovi, anche come delegati
della santa sede, - nella forma del diritto e senza pregiudizio di chi le ha -
potranno fare unioni perpetue di qualsiasi chiesa parrocchiale e battesimale e
di altri benefici, con o senza cura d’anime, con altri benefici curati, a causa
della loro povertà e negli altri casi permessi dal diritto, anche se tali
chiese o benefici fossero riservati in modo generico o specifico.
Queste unioni non potranno neppure esser revocate o in qualche modo
infrante, in forza di qualsiasi provvista, anche a motivo di rinunzia, di deroga, o di sospensione.
Canone VI
Poiché i rettori di chiese illetterati ed imperiti
sono meno adatti ai divini uffici ed altri, per la loro vita disonesta,
piuttosto che edificare distruggono, i vescovi, in quanto delegati della sede
apostolica, potranno assegnare a quelli che sono illetterati ed imperiti - se,
d’altronde, conducono vita onesta - dei coadiutori o dei vicari temporanei e
destinare ad essi parte dei frutti per un onesto sostentamento, o provvedere ad
essi in altro modo, senza alcuna ammissione d’appello o di esenzione.
Reprimano, invece, e castighino, dopo averli ammoniti,
quelli che vivono disonestamente e scandalosamente. Se poi continuassero, incorreggibili, nella loro
malvagità, avranno facoltà di privarli dei loro benefici, secondo le
prescrizioni dei sacri canoni, senza alcuna possibilità di appello e di
esenzione.
Canone VII
Bisogna avere molta cura anche di questo: che ciò che è destinato ai sacri
ministeri, col passare del tempo non vada affievolendo e non se ne perda dagli
uomini la memoria. Quindi i vescovi, anche in qualità di delegati della sede apostolica, potranno trasferire a loro volontà i benefici
semplici - anche di diritto di patronato, - da quelle chiese che per vecchiezza
od altro motivo fossero andate in rovina e non potessero per mancanza di mezzi
essere restaurate, alle chiese madri o ad altre chiese degli stessi luoghi o di
luoghi vicini, dopo aver convocato quelli cui la cosa interessa. In queste
chiese erigano altari e cappelle sotto le stesse invocazioni o li trasferiscano
in altari o cappelle già erette, con tutti gli emolumenti e gli oneri, che
gravavano sulle chiese originarie.
Procurino anche di rifare e di restaurare le chiese parrocchiali cadute,
anche se fossero di diritto di patronato, ciò, coi frutti e proventi di qualsiasi natura, che in qualsiasi modo appartengono alle
stesse chiese. Se questi non bastassero, inducano con ogni mezzo opportuno
tutti i patroni e quelli che percepiscono qualche frutto da queste chiese, o,
in mancanza di questi, i loro parrocchiani, perché compiano questo loro dovere,
senza che si possa addurre alcun appello, esenzione o altra cosa in contrario.
Nel caso che tutti fossero molto poveri, siano trasferiti alle chiese madri
o a quelle più vicine, con facoltà di destinare tanto le suddette chiese
parrocchiali, quanto le altre che fossero in cattivo stato, ad usi profani, ma non ignobili, lasciandovi una croce.
Canone VIII
È giusto che tutto quello che riguarda il culto di Dio nella diocesi debba
essere curato dall’ordinario e, se necessario, da lui provveduto.
Ogni anno, quindi, i monasteri dati in commenda, chiamati anche abbazie,
priorati, prepositure, in cui non fiorisce l’osservanza della regola, ed inoltre i benefici, sia con cura d’anime che senza,
secolari e regolari in qualsivoglia maniera dati in commenda, anche esenti,
siano visitati dai vescovi, anche in qualità di delegati della sede apostolica.
Curino pure, gli stessi vescovi, con opportuni rimedi, anche col sequestro
dei frutti, che le cose che hanno bisogno di rinnovamento o di restauro, siano
rifatte, e chela cura delle anime, se fosse annessa ad esse o a quello che con esse è connesso, ed altri doveri inerenti siano
esattamente soddisfatti, non ostante qualsiasi appello, privilegio,
consuetudini, - anche prescritte ab immemorabili, - qualsiasi diritto
dei conservatori, decisione e proibizione dei giudici.
Se in essi, invece, fosse viva la osservanza delle
regole, i vescovi facciano in modo, che i superiori di tali regolari conducano
la vita conforme alle loro regole e le facciano osservare e tengano a freno,
nel compimento del dovere, i loro dipendenti e li guidino. E se, dopo essere
stati ammoniti, non li visitassero entro sei mesi e non li correggessero,
allora gli stessi vescovi, anche come delegati della sede apostolica, potranno
visitarli e correggerli, come potrebbero farlo gli
stessi superiori secondo le loro regole. Ogni appello, privilegio, esenzione
sarà impossibile e non servirà a nulla.
Canone IX
Dai diversi concili anteriori: dal Lateranense (330), da quello di Lione,
da quello di Vienne (331), sono stati decisi molti rimedi contro gli indegni
abusi dei raccoglitori di elemosine. Questi, però, in seguito, sono stati resi
inutili, anzi si deve constatare che la loro malizia
cresce talmente ogni giorno, con scandalo enorme e lamentele di tutti i fedeli,
da doversi disperare assolutamente che possano in qualunque modo correggersi.
Si stabilisce, perciò che d’ora in poi, in qualsiasi parte del mondo
cristiano sia del tutto abolito il loro nome e l’uso e
che in nessun modo sia permesso di esercitare questo ufficio, non ostante i
privilegi concessi alle chiese, ai monasteri, agli ospedali, ai luoghi pii, e a
qualsiasi persona, di qualunque grado, stato e dignità e non ostante qualsiasi
consuetudine, anche immemorabile.
Quanto alle indulgenze e ad altre grazie spirituali, di cui non per questo
i fedeli cristiani devono esser privati, si dispone che in avvenire debbano
esser pubblicate dagli ordinari del luogo al popolo a
tempo debito, servendosi d due membri del capitolo, cui viene data anche la
facoltà di raccogliere con scrupolo le elemosine e gli aiuti della carità che
vengono loro offerti, senza ricevere affatto alcun compenso. Così intenderanno
tutti, veramente, che questi celesti tesori della chiesa vengono usati non per guadagno, ma per alimento della pietà.
Decreto di indizione della futura sessione.
Il sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, riunito
legittimamente nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati
della sede apostolica, ha stabilito e disposto che la
prossima futura sessione debba tenersi e celebrarsi il giovedì dopo l’ottava
della festa della natività della beata Maria vergine, che sarà il giorno 17 del
mese di settembre prossimo futuro.
Ciò, tuttavia, si deve intendere nel senso che esso possa ed abbia facoltà di poter abbreviare o prolungare
liberamente a suo arbitrio e volontà questo termine e quello che sarà assegnato
in futuro ad ogni sessione, anche in una congregazione generale, come crederà
utile all’andamento del concilio.
SESSIONE XXII (17 settembre 1562)
Dottrina e canoni sul santissimo sacrificio della messa.
Il sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, riunito
legittimamente nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi legati
della sede apostolica, perché sia mantenuta nella chiesa cattolica e conservata
nella sua purezza l’antica, assoluta, e sotto qualsiasi aspetto perfetta
dottrina del grande mistero dell’eucarestia contro gli errori e le eresie,
illuminato dallo Spirito santo, insegna, dichiara e
intende che su essa, come vero e singolare sacrificio, sia predicato ai popoli
cristiani quanto segue.
Capitolo I
Poiché sotto l’antico testamento (secondo la testimonianza dell’apostolo
Paolo (332)) per l’insufficienza del sacerdozio
levitico, non vi era perfezione, fu necessario - e tale fu la disposizione di
Dio, padre delle misericordie, - che sorgesse un altro sacerdote secondo
l’ordine di Melchisedech, e cioè il signore nostro
Gesù Cristo, che potesse condurre ad ogni perfezione tutti quelli che avrebbero
dovuto essere santificati. Questo Dio e Signore nostro, dunque, anche se una
sola volta (333) si sarebbe immolato sull’altare della croce, attraverso la
morte, a Dio Padre, per compiere una redenzione eterna; perché, tuttavia, il
suo sacerdozio non avrebbe dovuto tramontare con la
morte, nell’ultima cena, la notte in cui fu tradito (334), per lasciare alla
chiesa, sua amata sposa, un sacrificio visibile (come esige l’umana natura),
con cui venisse significato quello cruento che avrebbe offerto una sola volta
sulla croce, prolungandone la memoria fino alla fine del mondo, e la cui
efficacia salutare fosse applicata alla remissione di quelle colpe che ogni
giorno commettiamo; egli, dunque, dicendosi costituito sacerdote in eterno
secondo l’ordine di Melchisedech (335), offrì a Dio
padre il suo corpo e il suo sangue sotto le specie del pane e del vino, e lo
diede, perché lo prendessero, agli apostoli (che in quel momento costituiva
sacerdoti del nuovo testamento) sotto i simboli delle stesse cose (del pane,
cioè, e del vino), e comandò ad essi e ai loro successori nel sacerdozio che
l’offrissero, con queste parole: Fate questo in memoria di me (336),
ecc., come sempre le ha intese ed ha insegnato la chiesa cattolica.
Celebrata, infatti, l’antica Pasqua, - che la moltitudine dei figli di
Israele immolava in ricordo dell’uscita dall’Egitto -,
istituì la nuova Pasqua, e cioè se stesso, da immolarsi dalla chiesa per mezzo
dei suoi sacerdoti sotto segni visibili, in memoria del suo passaggio da questo
mondo al Padre, quando ci redense con l’effusione del suo sangue, ci strappò al
potere delle tenebre e ci trasferì nel suo regno (337).
Ed è questa quell’offerta pura, che non può essere contaminata da nessuna
indegnità o malizia di chi la offre; che il Signore per mezzo di Malachia (338) predisse che sarebbe stata offerta in ogni
luogo, pura, al suo nome che sarebbe stato grande fra le genti; e a cui non oscuramente sembra alludere l’apostolo Paolo,
scrivendo ai Corinti, quando dice (339): che non possono divenire partecipi
della mensa del Signore, quelli che si sono contaminati, partecipando alla
mensa dei demoni. E per "mensa" nell’uno e nell’altro luogo intende
(certamente) l’altare.
Questa, finalmente, è quella che al tempo della natura e della legge, era
raffigurata con le diverse varietà dei sacrifici: essa che raccoglie in sé
tutti i beni significati da quei sacrifici, come perfezionamento e compimento
di tutti essi.
Capitolo II
E poiché in questo divino sacrificio, che si compie nella messa, è
contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo, che si immolò una sola volta cruentemente sull’altare della croce, il santo
sinodo insegna che questo sacrificio è veramente propiziatorio, e che per mezzo
di esso - se di vero cuore e con retta fede, con timore e riverenza ci
avviciniamo a Dio contriti e pentiti - noi possiamo ottenere misericordia e
trovare grazia in un aiuto propizio (340).
Placato, infatti, da questa offerta, il Signore,
concedendo la grazia e il dono della penitenza, perdona i peccati e le colpe
anche gravi. Si tratta, infatti, della stessa, identica vittima e lo stesso
Gesù la offre ora per mezzo dei sacerdoti, egli che un
giorno si offrì sulla croce. Diverso è solo il modo di offrirsi. E i frutti di quella oblazione (di quella cruenta) vengono percepiti
abbondantemente per mezzo di questa, incruenta, tanto si è lontani dal pericolo
che con questa si deroghi a quella.
È per questo motivo che giustamente, secondo la tradizione degli apostoli,
essa viene offerta non solo per i peccati, le pene, le
soddisfazioni ed altre necessità dei fedeli viventi, ma anche per i fedeli
defunti in Cristo, non ancora del tutto purifrcati.
Capitolo III
E quantunque la chiesa usi talvolta offrire messe in onore e in memoria dei
santi, essa, tuttavia, insegna che non ad essi viene
offerto il sacrificio, ma solo a Dio, che li ha coronati.
Per cui, il sacerdote non è solito dire: Offro a te il sacrificio, Pietro e Paolo
(341); ma ringrazio Dio per le loro vittorie, chiede il loro aiuto: perché
vogliano intercedere per noi in cielo, coloro di cui celebriamo la memoria qui,
sulla terra (342).
Capitolo IV
E poiché le cose sante devono essere trattate santamente, e questo è il
sacrificio più santo, la chiesa cattolica, perché esso potesse essere offerto e
ricevuto degnamente e con riverenza, ha stabilito da molti secoli il sacro
canone (343), talmente puro da ogni errore, da non contenere niente, che non
profumi estremamente di santità e di pietà, e non
innalzi a Dio la mente di quelli che lo offrono, formato com’è dalle parole
stesse del Signore, da quanto hanno trasmesso gli apostoli e istituito piamente
anche i santi pontefici.
Capitolo V
E perché la natura umana è tale, che non facilmente viene tratta alla meditazione delle cose divine senza piccoli accorgimenti esteriori,
per questa ragione la chiesa, pia madre, ha stabilito alcuni riti, che cioè, qualche
tratto nella messa, sia pronunziato a voce bassa, qualche altro a voce più
alta. Ha stabilito, similmente, delle cerimonie, come le benedizioni mistiche;
usa i lumi, gli incensi, le vesti e molti altri elementi trasmessi
dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, con cui venga messa in evidenza la maestà di un sacrificio così grande, e le menti dei fedeli
siano attratte da questi segni visibili della religione e della pietà, alla
contemplazione delle altissime cose, che sono nascoste in questo sacrificio.
Capitolo VI
Desidererebbe certo, il sacrosanto sinodo, che in ogni messa i fedeli che
sono presenti si comunicassero non solo con l’affetto del cuore, ma anche col
ricevere sacramentalmente l’eucarestia, perché potesse derivarne ad essi un frutto più abbondante di questo santissimo
sacrificio.
E tuttavia, se ciò non sempre avviene, non per questo essa condanna come
private e illecite quelle messe, nelle quali solo il sacerdote si comunica
sacramentalmente, ma le approva e quindi le raccomanda, dovendo ritenersi anche
quelle, messe veramente comuni, sia perché il popolo in esse si comunica
spiritualmente, sia perché vengono celebrate dal
pubblico ministro della chiesa, non solo per sé, ma anche per tutti i fedeli,
che appartengono al corpo di Cristo.
Capitolo VII
Il santo sinodo ricorda poi, che la chiesa ha
comandato che i sacerdoti mischiassero dell’acqua col vino, nell’offrire il
calice, sia perché si ritiene che Cristo signore abbia fatto così e poi anche
perché dal suo fianco uscì insieme acqua e sangue (344): mistero che si
commemora con questa mescolanza.
E poiché con le acque, nell’apocalisse del beato Giovanni vengono indicati i popoli (345), con ciò viene rappresentata
l’unione dello stesso popolo fedele col capo, Cristo.
Capitolo VIII
Anche se la messa contiene abbondante materia per l’istruzione del popolo
cristiano, tuttavia non è sembrato opportuno ai padri che dovunque essa fosse
celebrata nella lingua del popolo.
Pur ritenendo, quindi, dappertutto l’antico rito di ogni chiesa, approvato
dalla santa chiesa Romana, madre e maestra di tutte le chiese, perché, però, le
pecore di Cristo non muoiano di fame, e i fanciulli chiedano il pane senza che vi sia chi possa loro spezzarlo (346), il santo
sinodo comanda ai pastori e a tutti quelli che hanno la cura delle anime, di
spiegare frequentemente, durante la celebrazione delle messe, personalmente o
per mezzo di altri, qualche cosa di quello che si legge nella messa e, tra le
altre cose, qualche verità di questo santissimo sacrificio, specie nei giorni
di domenica e festivi.
Capitolo IX
Ma poiché in questo tempo sono stati disseminati molti errori, e molte cose si insegnano e vengano disputate da molti contro
questa antica fede, fondata nel sacrosanto vangelo, sulle tradizioni degli
apostoli e sulla dottrina dei santi padri, il sacrosanto sinodo, dopo molte e
gravi discussioni su queste questioni, fatte con matura riflessione, per
consenso unanime di tutti i padri ha stabilito di condannare ciò che è
contrario a questa purissima fede e sacra dottrina e di eliminarlo dalla
chiesa, con i canoni che seguono.
CANONI SUL SANTISSIMO SACRIFICIO DELLA MESSA
1. Se qualcuno dirà che nella messa non si offre a Dio un vero e proprio
sacrificio, o che essere offerto non significa altro se non
che Cristo ci viene dato a mangiare, sia anatema.
2. Se qualcuno dirà che con quelle parole: Fate questo in memoria di me (347), Cristo non ha costituito i suoi apostoli sacerdoti o che non li ha
ordinati perché essi e gli altri sacerdoti offrissero il suo corpo e il suo
sangue, sia anatema.
3. Se qualcuno dirà che il sacrificio della messa è solo un sacrificio di lode e di ringraziamento, o la semplice
commemorazione del sacrificio offerto sulla croce, e non propiziatorio; o che
giova solo a chi lo riceve; e che non si deve offrire per i vivi e per i morti,
per i peccati, per le pene, per le soddisfazioni, e per altre necessità, sia
anatema.
4. Se qualcuno dirà che col sacrificio della messa si bestemmia contro il
sacrificio di Cristo consumato sulla croce; o che con esso si deroga all’onore di esso, sia anatema.
5. Chi dirà che celebrare messe in onore dei santi e per ottenere la loro
intercessione presso Dio, come la chiesa intende, è un’impostura, sia anatema.
6. Se qualcuno dirà che il canone della messa contiene degli errori, e che,
quindi, bisogna abolirlo, sia anatema.
7. Se qualcuno dirà che le cerimonie, le vesti e gli altri segni esterni,
di cui si serve la chiesa cattolica nella celebrazione delle messe, siano
piuttosto elementi adatti a favorire l’empietà, che manifestazioni di pietà,
sia anatema.
8. Se qualcuno dirà che le messe, nelle quali solo il sacerdote si comunica
sacramentalmente, sono illecite e, quindi, da abrogarsi, sia anatema.
9. Se qualcuno dirà che il rito della chiesa Romana, secondo il quale parte
del canone e le parole della consacrazione si profferiscono a bassa voce, è da
riprovarsi; o che la messa debba essere celebrata solo nella lingua del popolo;
o che nell’offrire il calice non debba esser mischiata l’acqua col vino, perché
ciò sarebbe contro l’istituzione di Cristo, sia anatema.
Decreto su ciò che bisogna osservare ed evitare nella celebrazione delle
messe.
Quanta cura sia necessaria, perché il sacrosanto sacrificio della messa sia
celebrato con ogni religiosità e venerazione, ognuno potrà facilmente capirlo,
se rifletterà che nella sacra scrittura viene detto
‘maledetto’ chi compie l’opera di Dio con negligenza (348) E Se dobbiamo
confessare che nessun’altra azione possa essere compiuta dai fedeli cristiani
così santa e così divina, come questo tremendo mistero, con cui dai sacerdoti
ogni giorno si immola a Dio sull’altare quell’ostia vivificante, per la quale
siamo stati riconciliati con Dio padre, appare anche chiaro che si deve usare
ogni opera e diligenza, perché esso venga celebrato con la più grande mondezza
e purezza interiore del cuore, e con atteggiamento di esteriore devozione e
pietà.
E poiché, sia per colpa del tempo che per
negligenza e malvagità degli uomini, si sono introdotti molti elementi
alieni dalla dignità di un tanto sacramento, perché sia restituito il dovuto
onore e culto, a gloria di Dio e ad edificazione del popolo fedele, questo
santo sinodo stabilisce che i vescovi ordinari si diano cura e siano tenuti a
proibire e a togliere di mezzo tutto ciò che hanno introdotto o l’avarizia, che
è servizio degli idoli (349), o l’irriverenza, che si può difficilmente
separare dall’empietà, o la superstizione, falsa imitazione della vera pietà.
E, per dirla in breve, prima di tutto - per quanto riguarda l’avarizia, -
essi proibiscano assolutamente qualsiasi compenso, i patti e tutto ciò che viene dato per celebrare le nuove messe; ed inoltre quelle, più
che richieste, importune e grette esazioni di elemosine; ed altre cose simili,
che non sono molto lontane, se non proprio dalla macchia della simonia, certo
da traffici volgari.
In secondo luogo, per evitare l’irriverenza, ognuno, nella sua diocesi, proibisca
che qualsiasi prete girovago e sconosciuto possa celebrare la messa. A nessuno,
inoltre, che abbia commesso un delitto pubblico e notorio,
permettano che possa servire al santo altare, o assistere alla santa messa; e
neppure che in case private, e, in genere, fuori della chiesa e degli oratori
destinati solo al culto divino da designarsi e visitarsi dagli ordinari -
questo santo sacrificio sia celebrato da qualsiasi secolare o regolare, e senza
che prima i presenti, in atteggiamento composto, mostrino di assistere non solo
col corpo, ma anche con la mente e con affetto devoto del cuore.
Bandiscano, poi, dalle chiese quelle musiche in cui, con l’organo o col
canto, si esegue qualche cosa di meno casto e di impuro; e similmente tutti i modi secolari di comportarsi, i colloqui vani e,
quindi, profani, il camminare, il fare strepito, lo schiamazzare, affinché la
casa di Dio sembri, e possa chiamarsi davvero, casa di preghiera (350).
Da ultimo, perché non si dia occasione di superstizione, con editto e con
minacce di pene facciano in modo che i sacerdoti non celebrino se non nelle ore
stabilite e che nella celebrazione delle messe non seguano riti o cerimonie, e
dicano preghiere diverse da quelle che sono state approvate dalla chiesa e
accettate da un uso consueto e lodevole. Tengano lontano assolutamente dalla
chiesa l’uso di un certo numero di messe e di candele, inventato più da un
culto superstizioso, che dalla vera religione. E insegnino al popolo quale sia
e da che principalmente provenga il frutto così
celeste e così prezioso di questo santissimo sacrificio.
Lo ammoniscano anche che si rechi frequentemente nella propria parrocchia,
almeno nei giorni di domenica e nelle feste più solenni.
Tutte queste cose, che abbiamo sommariamente enumerato, vengono proposte a tutti gli ordinari in tal modo, che non solo esse, ma qualsiasi
altra cosa che abbia attinenza con quanto veniamo dicendo, con quel potere che
ad essi viene conferito dal sacrosanto sinodo ed anche come delegati della sede
apostolica, essi le proibiscano, le comandino, le correggano, le stabiliscano,
e spingano il popolo fedele ad osservarle inviolabilmente con le censure
ecclesiastiche e con altre pene, che potranno essere stabilite a loro giudizio. Tutto ciò, non ostante i privilegi, le esenzioni; gli appelli
e le consuetudini di qualsiasi natura.
Decreto ai riforma.
Lo stesso sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino,
legittimamente riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi
legati della sede apostolica, perché l’opera della riforma prosegua, ha creduto bene, nella presente sessione, di stabilire
quanto segue.
Canone I
Non vi è altra cosa che spinga più assiduamente e maggiormente gli altri
alla pietà e al culto di Dio, della vita e dell’esempio di coloro che si sono
dedicati al divino ministero. Vedendoli, infatti, sollevati dalle cose del
mondo su di un mondo più alto, gli altri guardano ad essi come ad uno specchio e da essi traggono l’esempio da imitare. È
assolutamente necessario, perciò, che i chierici, chiamati ad avere Dio in
sorte, diano alla loro vita, ai loro costumi, al loro
abito, al loro modo di comportarsi, di camminare, di parlare e a tutte le altre
loro azioni, un tono tale, da non presentare nulla che non sia grave, moderato,
e pieno di religiosità. Fuggano anche le mancanze leggere, che in essi
sembrerebbero grandissime, perché le loro azioni possano ispirare a tutti venerazione.
Quanto più queste cose sono di utilità e di ornamento nella chiesa di Dio,
tanto più devono osservarsi diligentemente. Il santo sinodo dispone pertanto che i provvedimenti che in altro tempo furono presi
salutarmente e abbondantemente dai sommi pontefici e dai sacri concili circa la
vita, l’onestà, la cultura, la dottrina dei chierici, o quanto stabilirono
doversi evitare riguardo al lusso, ai banchetti, ai balli, ai dadi, ai giochi e
a qualsiasi altra mancanza, ed anche alle occupazioni secolari, vengano
osservati in futuro sotto la minaccia delle stesse pene, o magari anche più
gravi, a giudizio dell’ordinario. L’appello non potrà sospendere l’esecuzione
di questo decreto, che riguarda la correzione dei costumi. Se poi si
accorgessero che qualcuna di queste prescrizioni è andata in desuetudine,
facciano di tutto per richiamarle in uso e perché siano osservate
diligentemente da tutti. Tutto ciò, non ostante qualsiasi consuetudine, perché
non debbano essi stessi scontare una pena adeguata, testimone Dio, per la
trascuratezza nel correggere i sudditi.
Canone II
Chiunque, in futuro, sarà eletto alle chiese cattedrali, non solo dovrà
esser pienamente in regola per ciò che riguarda la nascita, l’età, i costumi,
la vita e per tutti gli altri requisiti richiesti dai
sacri canoni, ma dev’essere costituito nell’ordine sacro già da almeno sei
mesi. Le informazioni relative, qualora non si abbiano
affatto in curia o siano recenti, vengano assunte dai legati della sede
apostolica o dai nunzi delle province, o dall’ordinario, o, in mancanza di
questi, dagli ordinari più vicini.
Oltre a queste qualità, egli abbia tale scienza da poter soddisfare a
quanto richiede l’ufficio che gli si impone. Prima,
quindi, dovrà essere stato meritatamente promosso maestro in una Università o dottore o licenziato in sacra teologia o in diritto
canonico; o dovrà risultare idoneo ad insegnare agli altri da un pubblico
attestato di qualche accademia. Se poi si trattasse di un religioso, dovrà
avere un attestato simile dai superiori del suo ordine. Quelli cui si è
accennato e da cui dovranno essere assunte queste informazioni o testimonianze,
sono tenuti a fornirle fedelmente e gratuitamente. Diversamente, sappiano di
aver un gran peso sulla coscienza e di andare incontro alla vendetta di Dio e
dei loro superiori.
Canone III
I vescovi, anche come delegati della sede apostolica, potranno detrarre la
terza parte dei frutti e dei proventi di qualsiasi natura di tutte le dignità,
dei personati, degli uffici delle chiese cattedrali o collegiate, per le distribuizioni - da assegnarsi a loro arbitrio -; di modo
che quelli che le hanno, qualora non adempiano personalmente il competente servizio di ogni giorno, secondo la forma che sarà
prescritta dagli stessi vescovi, perdano la distribuzione di quel giorno, e non
acquistino la proprietà di essa in nessun modo; ma sia destinata, se ne ha
bisogno, alla fabbrica della chiesa, o ad altro luogo pio, ad arbitrio
dell’ordinario.
Qualora la loro contumacia cresca, procedano contro di essi secondo quanto
stabiliscono i sacri canoni. Se a qualcuna delle dignità accennate non compete,
nelle chiese cattedrali o collegiate, di diritto o per consuetudine, la
giurisdizione, l’amministrazione, o un ufficio, ma vi siano in diocesi, fuori
di città, cure d’anime alle quali voglia attendere colui che ha la dignità, in questo caso, per tutto il tempo in cui egli risiederà o
compirà il suo ufficio di amministratore nella chiesa dov’è la cura d’anime,
sia considerato come presente e come se assistesse ai divini uffici nelle
chiese cattedrali o collegiate.
Quanto veniamo dicendo deve intendersi stabilito per quelle chiese, nelle
quali non vi è alcuna consuetudine o prescrizione, per cui le dignità che non
soddisfano al loro ufficio perdano la terza parte dei suddetti frutti e
proventi. Quanto stabiliamo, dovrà valere non ostante le consuetudini, anche
immemorabili, le esenzioni, le costituzioni, anche se fossero state confermate
con giuramento e da qualsiasi autorità.
Canone IV
Chiunque, addetto agli uffici divini in una chiesa cattedrale o collegiata,
secolare o regolare, non abbia ricevuto almeno l’ordine del suddiaconato, non
abbia in queste chiese voce in capitolo, anche se questo gli venga concesso dagli altri.
Quelli, poi, che hanno dignità, personati, uffici, prebende, porzioni e
qualsiasi altro beneficio in queste chiese, o che l’avranno in seguito, cui
fossero annessi oneri vari, e cioè di dire o cantare la messa, il vangelo o le
epistole, qualsiasi privilegio essi abbiano, di qualsiasi esenzione,
prerogativa, nobiltà di famiglia essi godano, siano tenuti, cessando i giusto impedimento, a ricevere entro un anno gli ordini
richiesti. Diversamente incorreranno nelle pene stabilite dalla costituzione
del concilio di Vienne, che comincia: Ut ii, qui... (351), che si
rinnova col presente decreto.
E i vescovi li costringano ad esercitare
personalmente questi ordini nei giorni stabiliti e a compiere tutti gli altri
uffici che devono prestare per il culto divino, sotto minaccia delle stesse
pene, ed anche di altre più gravi, da imporsi a loro giudizio. In futuro, poi,
non venga fatta una provvista, se non a favore di
quelli dei quali si conoscono per esperienza l’età e le altre doti richieste;
altrimenti la provvista sia invalida.
Canone V
Le dispense da qualsiasi autorità concesse, se devono consegnarsi fuori
della curia Romana, si rimettano agli ordinari di coloro che le hanno chieste.
Quelle poi che si concedono come grazia, non sortiranno il loro effetto, se
prima essi, come delegati della sede apostolica, sommariamente e in forma extra
giudiziale, non avranno la certezza che le preghiere addotte non sono viziate
dal difetto di reticenza o falsità.
Canone VI
Nelle commutazioni delle ultime volontà, - che non devono aver luogo se non
per giusto e necessario motivo - i vescovi, come delegati della sede
apostolica, sommariamente e senza formale giudizio, si accertino, prima che i
predetti cambiamenti siano mandati ad esecuzione, che
nelle suppliche addotte non è stato detto nulla con reticenza della verità o
con la narrazione di cose false.
Canone VII
I legati e i nunzi apostolici, i patriarchi, i primati e metropoliti, negli
appelli ad essi interposti in qualunque causa, sia
nell’accogliere gli appelli stessi, sia nel concedere le difese dopo l’appello,
sono tenuti ad osservare la forma ed il contenuto delle sacre costituzioni, e
specialmente di quella di Innocenzo IV, che comincia: Romana (352).
Qualsiasi consuetudine, anche immemorabile, qualsiasi stile o privilegio in
contrario, non serviranno a nulla. Altrimenti le
inibizioni, i processi e quanto ne sia conseguito siano ipso iure nulli.
Canone VIII
I vescovi, anche come delegati della sede apostolica, nei casi concessi dal
diritto, saranno gli esecutori di tutte le disposizioni pie,
sia di quelle che sono espressione delle ultime volontà, che di quelle tra
vivi. Abbiano la facoltà di visitare gli ospedali, i collegi di qualsiasi
specie, le confraternite laicali, anche quelle che chiamano ‘scuole’ o con
qualsiasi altro nome; non però quelle che sono sotto la immediata
protezione dei re, senza loro espressa licenza.
Per dovere d’ufficio, inoltre, e secondo le prescrizioni dei sacri canoni,
essi s’informino delle elemosine dei monti di pietà o
di carità, dei luoghi pii, comunque essi si chiamino, anche se la cura di
questi pii luoghi sia affidata ai laici e godano del privilegio dell’esenzione;
facciano eseguire tutto ciò che riguarda il culto di Dio e la salvezza delle
anime, o che è stato istituito per il sostentamento dei poveri.
Tutto ciò, non ostante qualsiasi consuetudine, anche immemorabile,
privilegio, o statuto.
Canone IX
Gli amministratori - sia ecclesiastici che laici -
della fabbrica di qualsiasi chiesa, anche cattedrale, di un ospedale, di una
confraternita, delle elemosine, dei monti di pietà, e di qualunque luogo pio,
siano obbligati a rendere conto, ogni anno, all’ordinario della loro
amministrazione, aboliti qualsiasi consuetudine e privilegio in contrario, a
meno che, per caso, nella costituzione e nell’ordinamento di tale chiesa o
fabbrica non sia stato disposto diversamente.
Che se per consuetudine o per privilegio, o anche per qualche disposizione
locale, si dovesse rendere conto ad altri, a ciò deputati, con questi sia
chiamato anche l’ordinario. Deliberazioni prese diversamente saranno del tutto
inutili per gli amministratori.
Canone X
Dato che dalla ignoranza dei notai sorgono molti
danni e si ha l’occasione per molte liti, il vescovo, anche come delegato della
sede apostolica, potrà rendersi conto, con un esame, della preparazione di
qualsiasi notaio, anche se fosse stato creato per autorità apostolica,
imperiale, o regia; e, qualora non li trovasse idonei, o anche quando essi
mancassero nel loro ufficio, potrà togliere loro la facoltà di esercitare
quell’ufficio nelle questioni, nelle liti, nelle cause ecclesiastiche e
spirituali. Ciò, per sempre o temporaneamente. Né il loro appello potrà
sospendere la proibizione dell’ordinario.
Canone XI
Se la cupidigia, radice di tutti i mali (353), dominasse talmente un chierico
o un laico, - di qualsiasi dignità questi possa essere insignito, anche
imperiale o regale, - da spingerlo, direttamente o per mezzo di altri, con la
forza o con la minaccia, o anche mettendo di mezzo chierici o
laici, con qualsiasi raggiro o colore, a volgere a propria utilità e ad
usurpare le giurisdizioni, i beni, i censi, i diritti, anche feudali ed
enfiteutici, i frutti, gli emolumenti o qualsiasi provento di una chiesa o di
un beneficio qualsiasi, secolare o regolare, dei monti di pietà e di altri luoghi
pii, che dovrebbero essere destinati alle necessità dei poveri e dei loro
amministratori; e chi osasse impedire che vengano percepiti da coloro, cui per
diritto spettano; questi sia scomunicato fino a che non abbia restituito
completamente alla chiesa o al suo amministratore o al beneficiato le
giurisdizioni, i beni, i diritti, i frutti, i redditi, di cui si è impadronito
o che a lui in qualunque modo, anche per donazione per interposta persona, sono
pervenuti; e che non abbia ricevuto l’assoluzione dal romano pontefice.
Se poi egli fosse patrono di quella chiesa, sia perciò stesso privato del
diritto di patronato, oltre alle pene già dette.
Quel chierico poi, che architettasse questa indegna frode e usurpazione, o acconsentisse ad essa, sia sottoposto alle stesse pene, sia
privato di qualsiasi beneficio, sia considerato inabile a qualsiasi altro
beneficio, e sia sospeso dall’esercizio dei suoi ordini, anche dopo la completa
soddisfazione e l’assoluzione, a giudizio del suo ordinario.
Decreto sulla richiesta di concessione del calice.
Lo stesso sacrosanto sinodo nella precedente sessione si riservò di
esaminare e di definire, all’occasione, in altro tempo, due articoli, proposti
in altra circostanza ed allora non ancora discussi; e
cioè: ‘Se le ragioni da cui fu indotta la santa chiesa cattolica per dare la
comunione ai laici, e ai sacerdoti non celebranti, sotto la sola specie del
pane, debbano ritenersi tali, da non potersi permettere a nessuno, per nessun
motivo, l’uso del calice’; e ‘Se dovendosi per motivi giusti e conformi alla
cristiana carità concedere l’uso del calice ad una nazione o ad un regno, debba
concedersi sotto alcune condizioni, e quali siano queste condizioni’.
Ora, quindi, volendo che si provveda nel migliore modo possibile alla salvezza
di quelli, per cui il calice viene richiesto, ha
stabilito che tutta la faccenda venga rimessa al nostro santissimo signore il
papa, come in realtà fa col presente decreto. Egli con la sua singolare
prudenza, faccia quello che crederà utile alla cristianità, e salutare a quelli
che chiedono l’uso del calice.
Decreto sul giorno della futura sessione.
Inoltre lo stesso sacrosanto sinodo Tridentino indice il giorno della
futura sessione per la feria quinta dopo l’ottava della festa di tutti i santi,
che sarà il giorno 12 del mese di novembre. In essa
sarà deciso quanto riguarda il sacramento dell’ordine e il sacramento del matrimonio.
Note
306. Cfr. Lc 21, 5.
307. Cfr. Lc 1, 17.
308. Cfr. Mal 4, 6.
309. Cfr. Eb 13, 9.
310. Cfr. Mt 13, 30.
311. Cfr. Sal 121, 6.
312. Cfr. Is 49, 15.
313. Cfr. Rm 15, 6.
314. Cfr. Lc 1, 78.
315. Col 3, 14.
316. Cfr. Col 3, 15.
317. Cfr. Sal 94, 8; Eb 3, 8.
318. Cfr. Ef 4, 17.
319. Cfr. II Pt 2,
10; Rm 15, 1-3.
320. Segue il salvacondotto già approvato nella XV sessione (v. sopra).
321. Cfr. Is 11, 2.
322. Gv 6, 52.
323. Gv 6, 55.
324. Gv 6, 57.
325. Gv 6, 59.
326. I Cor 4, 1.
327. Cfr. At 16. 3; 21, 26-27.
328. I Cor 11, 34.
329. Cfr. Tt 3, 5.
330. Concilio Lateranense IV, c. 62 (v. sopra).
331. In realtà i concili di Lione e di Vienne non disposero nulla in proposito: si veda invece c. 2, V, 9. in Clem.
(Fr 2. 1190).
332. Cfr. Eb 7, 11,
19.
333. Cfr. Eb 7, 27;
9, 12, 26, 28.
334. Cfr. I Cor 11, 23.
335. Cfr. Sal 109, 4; Eb 5, 6.
336. Lc 11, 19; I Cor 11, 24.
337. Cfr. Col1, 3.
338. Cfr. Mt 1, 11.
339. Cfr. I Cor 10, 21.
340. Eb 4, 16.
341. Cfr. AGOSTINO, Contra Faustum, XX, 21
(CSEL 25, 562).
342. Dall'orazione recitata durante la messa dopo la purificazione delle mani.
343. Cfr. AMBROGIO, De sacram., IV, 6 (PL 16, 464).
344. Cfr. Gv 19, 34.
345. Cfr. Ap 17, 15.
346. Cfr. Lam 4, 4.
347. I Cor 11, 25.
348. Cfr. Ger 48, 10.
349. Cfr. Ef 5, 5.
350. Cfr. Mt 21, 13; Is 56, 7.
351. Concilio di Vienne, c. 5 (v. sopra).
352. C. 1, II, 2, in VI (Fr 2, 996).
353. Cfr. I Tm 6, 10.